Lotti Bonino

Lot 317

Carlo Saraceni (1579 – 1620)

Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne

La seduta d'asta si tiene il 15 maggio 2024 alle 15:30 (IT Time)
Stima €60000 - €90000
Lotto aggiudicato a € 80000.00
Olio su tela
92 x 76,5 cm

Elementi distintivi:
al verso della cornice, timbro dello specialista in cornici "FRANCO SABATELLI"; scritta "LL" in gesso e due etichette bianche stampate in inchiostro nero «CARAVAGGIO & HIS WORLD. Art Gallery of New South Wales: 29 November 2003 – 22 February 2004; National Gallery of Victoria: 11 March – 30 May 2004. Cat. No. 52. Carlo Saraceni, Judith with the head of Holofermes. Collezione Koelliker», in inchiostro blu e poi compilata in penna «piccin trasporti d’arte s.r.l. MOSTRA: “CARAVAGGIO & HIS WORLD” – AUSTRALIA; TITOLO DELL’OPERA: SARACENI, “GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE” COD. LK. 0908; PROPRIETA’: KOELLIKER / MI – CASSA NR. 18 -»; nastro adesivo bianco in penna nera «K 13 PRA??»; sull’asse mediano orizzontale del telaio, in pennarello nero «LK0908»; tracce di una etichetta rimossa

Provenienza:
Collezione privata; Christie’s, New York ("Important Paintings by Old Masters", 6 giugno 1984, lot 179, Saraceni) (?); Farsetti, Prato (14 maggio 2002, l. 1065, Saraceni); Collezione Koelliker (novembre 2002)

Bibliografia :
G. Briganti, “Mostra di Pittori Italiani del Seicento”,Roma, 1944, n. 28 (?); Christie’s, "Important Paintings by Old Masters", lotto 179, 6 giugno 1984, New York (?); J. T. Spike, scheda, in J. Blunden, a cura di, "Caravaggio & his world: darkness & light", catalogo della mostra, (Syndey, Art Gallery of New South Wales; Melburne, National Gallery of Victoria), Sydney 2003, pp. 182-183, cat. 52 (Saraceni, 1620); G. Papi, scheda, in J. Milicua, a cura di, "Caravaggio y la pintura", catalogo della mostra, (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya), Barcellona 2005, p. 277 (Saraceni); G. Papi, scheda, in G. Papi, a cura, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra (Ariccia, Palazzo Chigi), Milano 2006, pp. 102-105 n. 24 (Saraceni, verso il 1615); S. Benedetti," The 'schola' of Caravaggio. Ariccia", «The Burlington Magazine», CIL, feb. 2007, p. 129 (Saraceni e bottega); G. Coco, scheda n. 34, in M. G. Aurigemma, a cura di, "Carlo Saraceni 1579-1620. Un Veneziano tra Roma e l'Europa", catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia), 2014, pp. 239, ill. p. 238 (Saraceni); A. Donati, "Una Giuditta di Saraceni e una Vanità di Cagnacci", in «Arte/Documento», n. 33, 2016, pp. 172 (Saraceni, verso il 1615)

Esposizioni:
J. Blunden, a cura di, "Caravaggio & his world: darkness & light", Syndey, Art Gallery of New South Wales; Melburne, National Gallery of Victoria, 2003, cat. 52; G. Papi, a cura, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra (Ariccia, Palazzo Chigi), Milano 2006, pp. 102-105 n. 24

Certificati:
lettera di Mina Gregori (come Carlo Saraceni; copia fotostatica); scheda di Gianni Papi (come Carlo Saraceni e Bottega, aprile 2003; copia fotostatica)

Stato di conservazione:
Condizione supporto: 90% (in prima tela, con alcuni sfondamenti opportunamente suturati)
Condizione superficie: 80% (cadute di colore, integrazioni e ritocchi, vernice protettiva)

La “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne” del veneziano Carlo Saraceni (1579 circa –1620), invenzione tra le più fortunate del primo caravaggismo che osserviamo qui in un prototipo autografo, rielabora due opere capitali del Merisi - la “Giuditta” di Palazzo Barberini (1602), di cui è citata la testa della vecchia, e “Davide con la testa di Golia” della Galleria Borghese (1609-1610), che fa da modello per il capo mozzato – letteralmente, in una luce nuova, costruita intorno ad una candela: la luce interna, notturna, del tenebroso caravaggismo nordico.
Poco dopo il 1610, secondo la critica Saraceni elabora una prima versione del soggetto “rieditando” un prezioso dipinto di Lorenzo Lotto di un secolo prima (è datato 1512, collezione BNL) in due opere conservate alla Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda e ai Musei Civici di Verona. Poi sterza verso il naturalismo, e rappresenta – in una tela conservata presso il Kunsthistorisches Museum di ideazione completamente nuova - se stesso nella testa mozzata di Oloferne, come Caravaggio aveva fatto nel “Davide e Golia”, e Giuditta e la fantesca quasi costrette in uno spazio esiguo e drammatico (la fantesca addirittura tiene sollevato con i denti il sacco in cui viene riposta la testa), primariamente definito dall’irradiarsi della luce. Questa invenzione ha una potenza dirompente, e non smette di affascinare i pittori e i collezionisti ben oltre i confini d’Italia e i 41 anni di vita concessi a Saraceni: Anna Ottani Cavina, alla voce “Saraceni”, ultimata nel 2017, del “Dizionario Biografico degli Italiani”, ricorda che sono decine i dipinti riconducibili a questo modello: la cui diffusione in repliche e copie punteggia così lo sviluppo del Caravaggismo, soprattutto nel suo transito verso il Nord Europa, sino alle versioni introdotte da David Teniers il Giovane (1610-1690) nei suoi famosi “cabinets d’amateur”.
Delle moltissime versioni esistenti, le prime e principali – tra cui il dipinto in esame – vengono create tutte nella bottega e sotto la regia, se non dalla mano, di Saraceni, che ne definisce le principali varianti: lo sviluppo delle quali, paradossalmente, testimonia – insieme all’espansione del naturalismo – la progressiva distanza dal maestro.
Il complesso impiego di prototipi, repliche con varianti e copie messo in atto da Carlo Saraceni nella propria bottega quantomeno a partire dagli anni dieci del Seicento è bene illustrato da Yuri Primarosa in due recenti contributi ("L’originale ritrovato. Carlo Saraceni e l’ "Angelo che veglia il Bambino Gesù con la Vergine e sant’Anna” tra repliche autografe, derivazioni e copie", in P. Di Loreto, a cura di, "Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri", Roma, 2018, pp. 174-180 e "Nuova luce su Carlo Saraceni: La Madonna del Pilar di S. Maria in Monserrato e altri inediti", in «Storia dell’Arte», Inverno 2018, pp. 73-74 e 75 nn. 18-19).
Saraceni, giunto a Roma nel 1598 e subito entrato nella vita artistica cittadina, prima appoggiandosi allo scultore vicentino Camillo Mariani (1567-1611) e poi al pittore tedesco Adam Elsheimer (1578-1610), si guadagna rapidamente l’amicizia di Caravaggio di cui, per parafrasare Manzoni e Longhi insieme, lava il realismo e i violenti chiaroscuri nel tonalismo neo-giorgionesco della laguna veneta.
È un rapporto che si può seguire nella evoluzione dello stile, nella scelta dei soggetti e persino nelle carte processuali, a proposito dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni, a quanto pare ad opera di Caravaggio, il 28 maggio 1606: infatti, in una deposizione del 2 novembre 1606 il rivale pittore Giovanni Baglione accusò Saraceni e Borgianni «aderenti al Caravaggio» di averlo aggredito tramite un sicario per contrastare, da parte dei caravaggeschi (già allora così indicati), l’elezione del nuovo principe dell’Accademia di S. Luca, pilotata da Baglione in qualità di principe uscente (L. Spezzaferro, Una testimonianza per gli inizi del caravaggismo, in «Storia dell’arte», 1975, n. 23, pp. 53-60; sul tema anche Isabella Salvagni, "Gli «aderenti al Caravaggio» e la fondazione dell’Accademia di San Luca. Conflitti e potere (1593-1627)", in M. Fratarcangeli, a cura di, "Intorno a Caravaggio. Dalla formazione alla fortuna", Roma 2008, pp. 41-74; 83-124).
Saraceni emerge come un uomo dal piglio pratico, che tiene saldamente in mano i suoi affari, in testa al movimento caravaggesco a Roma: anche prima del 1610, anno della morte del maestro, come dimostrano proprio Baglione col denunciarlo e il pressoché contemporaneo affidamento da parte dei Carmelitani scalzi di una pala d’altare con la “Morte della Vergine” per sostituire quella ‘scandalosa’ dipinta da Caravaggio nel 1604 su commissione del giurista Laerzio Cherubini per la propria cappella nella chiesa di Santa Maria della Scala.
Un atteggiamento tenuto anche nella gestione della bottega e dei commerci: egli eseguiva «abitualmente delle repliche di piccolo formato delle sue opere più famose» in prima persona o affidandole agli allievi, «nel suo atelier di “strada Ripetta verso San Giacomo”». «Ma si trattava di “ricordi” che rimanevano nella bottega a memoria dei più importanti lavori eseguiti? Oppure di una sorta di vetrina o campionario da mostrare ai potenziali clienti che potevano richiedere al pittore altre repliche delle opere visionate? Con ogni evidenza la risposta è affermativa per entrambi i quesiti. Gli originali, le seconde o le terze versioni autografe, i dipinti a quattro mani e le copie da questi derivate contribuivano, assieme alle stampe, a diffondere l’opera dell’artista e ad accrescerne la reputazione su scala europea» (Primarosa, 2018, “L’originale ritrovato. Carlo Saraceni etc”, pp. 73-74).
È una prassi comune a molti artistici veneti, da Tiziano a Canova (G. Tagliaferro, “The composition of themes and variations by Titian and his workshop”, in P. Humfrey, a cura di, “Titian. Themes and Variations”, Firenze, 2023, pp. 12-37; P. Mariuz, “Lo studio di Canova a Roma”, in G. Pavanello, a cura di, “Canova. Eterna Bellezza”, Cinisello Balsamo, 2019, pp. 44-55), che vede l’autore consapevole del valore – autonomo e persistente – della propria invenzione, diffusa attraverso uno studiato sistema di variazioni e repliche: in cui varia il coinvolgimento manuale, ma di cui resta indiscutibile e fondamentale la titolarità intellettuale. Ed ha un effetto diretto sul piano attributivo poiché l’autografia, l’autenticità, in questa ottica strettamente aderente alla realtà della bottega, non può più essere ristretta alla esecuzione materiale del lavoro. Nel nostro caso, la bottega stessa va intesa come strumento produttivo di Saraceni.
Da questa prospettiva, aggiornata e pungente, è ora possibile esaminare la tela in studio nel catalogo – molto ricco – delle tele saraceniane raffiguranti “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne”. Essa proviene dalla collezione di Luigi Koelliker, come bene scrive Sergio Benedetti, «without question the most ambititous and passionate collector of Italian paintings today» (Benedetti 2007, p. 127).
La restituzione a Saraceni si deve a Mina Gregori, che in una lettera al proprietario, non datata ma antecedente al 2003, offre un primo inquadramento anche per il complesso argomento delle repliche e della loro cronologia: «soggetto prediletto di Carlo Saraceni, e trattato in epoche diverse della sua attività, fu la “Giuditta con la testa di Oloferne assistita dalla fantesca”. Se ne conoscono alcune redazioni più o meno simili, rappresentate da quella, sostanzialmente diversa nello schema, di Dresda, e da quella del Museo di Lione, che sono da ritenersi le più antiche essendovi il gioco delle ombre meno drammatico. Più mature, e da datarsi intorno alla metà del secondo decennio del Seicento, sono le trattazioni autografe, abbastanza simili tra loro, ma con sostanziali varianti, del museo di Vienna (in questa si riconosce, nella testa, di Oloferne, l’autoritratto del pittore) e della Collezione Longhi. A questi due esemplari indiscussi si deve oggi aggiungere la Sua inedita “Giuditta” […] La finezza dell’esecuzione di questo dipinto, la lievità delle ombre e delle luci che sfiorano la testa e lo scollo della protagonista, e rivelano la vecchiezza della fantesca, il particolare, assente nelle altre redazioni, della tenda (di un rosso ciliegia e di una stesura che sono caratteristica del Saraceni) consentono di affermare senza riserve che siamo di fronte a un altro originale del maestro».
Concorda con Mina Gregori, Gianni Papi, che torna a più riprese sulla tela Koelliker, dapprima in uno studio inedito, datato nell’archivio Koelliker all’aprile 2003, in cui accosta la tela «strettamente» alla versione Longhi, «reputata unanimemente autografa, insieme a quella del Kunsthistorisches Museum di Vienna, probabilmente di datazione più precoce (si può azzardare l’inizio del secondo decennio […])». Difatti la «redazione in oggetto ripete fedelmente l’iconografia del quadro Longhi […] ma aggiunge in alto a destra il drappo rosso, simile a un sipario che si apre, di caravaggesca ascendenza». Questo motivo – segnala lo studioso - non compare in nessuna delle opere considerate originali o copie nei regesti di Anna Ottani Cavina e Benedict Nicolson (A. Ottani Cavina, “Carlo Saraceni”, Vicenza, 1968, pp. 99, 104-105, 125-127; B. Nicolson, “Caravaggism in Europe”, Torino, 1990, I, pp. 169-170) «mentre due altre versioni di questo tipo – di qualità sicuramente inferiore alla presente – sono documentate da altrettante foto conservate presso la Fondazione Roberto Longhi di Firenze (la prima segnalata genericamente in collezione privata, la seconda in una raccolta di Madrid)». Conclusivamente lo studioso segnala che la «redazione Koelliker è sicuramente la più bella fra le tre che presentano il motivo del drappeggio rosso, ma a mio avviso ciò non è comunque sufficiente per dichiarare la sicura autografia della tela, che mostra una certa meccanicità in alcuni passaggi, come ad esempio le pieghe della bianca camicia di Giuditta o il distendersi un po’ pesante dell’ombra sul suo petto. Dal confronto con la versione autografa più prossima, cioè quella Longhi, si potrà notare come quest’ultima offra una pittura più sfumata, come vi sia più soffice la struttura delle pieghe e più lieve il contorno delle figure, dei tratti delle fisionomie», talché appare, nella versione Koelliker, «l’intervento della bottega del veneziano».
Tra il 2003 e il 2005, il dipinto ha subito un accurato intervento di restauro, eseguito da Carlotta Beccaria, che ha rimosso i «numerosi precedenti interventi di restauro sulle lacune» e le «velature di superficie eseguite per unificare le pennellate e rimuovere le linee della craquelure», restituendo morbidezza e leggerezza alle pennellate, particolarmente sul panneggio.
A seguito del restauro, Papi ha accettato la piena autografia dell’opera (2005, p. 277: «de todas ellas se deberá destacar la que recientemente ha llegado a la colección Koelliker de Milán, la cual, tras una cuidadosa restauracón, muestra una calidad que, a mi entender, la eleva a una nueva versión original», in spagnolo nel testo originale; 2006, p. 104: «il restauro che ha riguardato il dipinto dopo il suo ingresso nella collezione milanese ha confermato la paternità del pittore veneziano»).
Mentre Benedetti (2007, p. 129) legge nell’opera, a fianco al maestro, l’ampio intervento della bottega («executed largely in Carlo Saraceni’s worshop»), John Thomas Spike (2003, cat. 52) ne accetta la piena autografia e la data alla fine della vita dell’artista (1620): «The present “Judith” is the most recent to come to light and gain the consensus of scholars. Its noticeable refinements over the examples in Vienna and in the Longhi Foundation in Florence suggest that this version is the most advanced of the series, executed shortly before the painter’s untimely death in 1620». La datazione non è molto dissimile da quella assegnata da Anna Ottani Cavina al dipinto in collezione Longhi (1618, A. Ottani Cavina, “Carlo Saraceni”, Vicenza, 1968, cat. 14).
Spike coglie qui anche un fondamentale elemento di stile, segnalando come Saraceni tratti il tema in modo visibilmente diverso negli anni, dalla precoce versione viennese, in cui egli aveva dipinto il proprio volto nella testa mozzata di Golia, suscitando nell’osservatore un sentimento di suspence e rendendo palpabile la preoccupazione delle donne di essere scoperte, fino alla versione attuale, che suggerisce un senso di «sensuale intimità» («sexual intimacy»).
Preferisce una datazione meno inoltrata nel secolo Gianni Papi: «sebbene sia molto difficile avanzare una data sicura, propenderei per una cronologia più precoce e forse intermedia fra il dipinto viennese e quello Longhi: l’opera potrebbe dunque essere stata eseguita in prossimità della metà del secondo decennio» (Papi 2006, p. 104). E’ un periodo in cui il prestigio di Saraceni era ben consolidato a Roma, come testimoniano importanti commissioni per prestigiose pale d’altare per chiese cittadine e della provincia oppure, per esempio, la decorazione della Sala Regia voluta da papa Paolo V in Quirinale, cui l’artista lavora tra il 1616 e 1617.
Anche nel catalogo della mostra monografica dedicata all’artista nel 2014 da Maria Giulia Aurigemma, l’opera è accolta come pienamente autografa, nella scheda dedicata da Giulia Coco alla versione della Fondazione Roberto Longhi (Coco 2014, p. 239) e, per la sua grande bellezza, addirittura è l’unica versione riprodotta nella scheda (p. 238): «Ritenuto autentico da Argan, Ottani Cavina, Briganti e Papi è anche il dipinto già in asta Farsetti Prato, oggi in collezione Luigi Koelliker, definito da Mina Gregori “senza riserve […] un altro originale del maestro». «Si tratta di una versione alternativa a quella Longhi» e del «prototipo per due copie segnalate da Ottani Cavina: la prima a Madrid, presso la Galleria Quixquote, identificata da Longhi in un appunto manoscritto come “Prop. Federico Serrano Oriol lista 42 Madrid Abril 1959” (Fototeca Roberto Longhi, inv. 1070262); la seconda nella Galleria Estense di Modena dal 1964 (lascito Ferruccio Cami), ritenuta autentica da Ghidiglia Quintavalle e definita da Ottani Cavina grossolana opera di bottega, caratterizzata da una generale opacità della materia pittorica e da ombre caricate ed effettistiche (Pérez Sánchez 1965, Ottani Cavina 1968). Copie dello stesso autografo sono anche l’esemplare già presso Sotheby’s (1979) e un dipinto noto da una fotografia nella fototeca Giuliano Briganti di Siena (inv. B11319)» (Coco 2014, p. 239).
L’opera è autografa di Carlo Saraceni anche per Chiara Marin (comunicazione del 4 marzo 2011, di cui resta registrazione negli archivi della proprietà: «Saraceni»).
La piena autografia è accettata, infine, nel contributo più recente sulle versioni saraceniane di “Giuditta e Oloferne”, firmato da Andrea Donati (2016, p. 172): «La “Giuditta” è nota in almeno quattro redazioni autografe: il quadro della Fondazione Longhi di Firenze (olio su tela, cm 95,8 x 77,3, inv.83), dato da Giulia Coco al 1618 (ma la foto stampata riproduce il dipinto Koelliker non quello Longhi!), quello del Kunsthistorisches Museum, quello della raccolta Manusardi (già Finarte, nel 1963) e quello della collezione Koelliker di Milano (olio su tela, cm 92x76,5 cm) proveniente dalla vendita Christie’s, New York, 6 Giugno 1984, Lotto 179», cui lo studioso aggiunge, quale nuova proposta, un dipinto già in collezione belga (proposto in asta a Sotheby’s Parigi il 13 giugno 2023, lotto 21). Donati concorda con Papi sulla datazione, proprio percorrendo a ritroso il ragionamento di Spike sul rapporto con il caravaggismo («John Spike ha datato il dipinto Koelliker verso il 1620, anno della morte di Saraceni, Gianni Papi invece verso il 1615. Anticipare la datazione a mio avviso è più corretto, perché l’invenzione non è la prova finale di un’adesione convinta e netta al caravaggismo, bensì l’esito sperimentale di un soggetto famoso e assai praticato dagli artisti»). Donati svolge anche un acuto insight nel processo creativo dell’opera, comparando la prima versione – dipendente da Lotto – al filone cui appartiene la versione Koelliker, caratterizzata da un aperto richiamo a Caravaggio, modello ormai tanto cercato dal mercato da imporre al concreto Saraceni chiare linee di stile: «Quando Saraceni inventò la “Giuditta” era ormai lontano dal sentimento caravaggesco, ma sapeva che non poteva ignorare un fenomeno di portata europea. Ci voleva dunque una soluzione d’astuzia, che assecondasse forse il desiderio di un cliente esigente, dal gusto moderno, a caccia di un effetto speciale, ma che non tradisse del tutto il modo di sentire del pittore, orientato verso un ripensamento dalla pittura veneta sempre più decisivo. Saraceni doveva competere a Roma in un mercato straordinariamente agguerrito, in cui la pittura caravaggesca era di moda. Il cliente che egli aveva per le mani», cioè il committente del prototipo di questa nuova versione di “Giuditta e Oloferne” «doveva essere uno di coloro che ambivano a questo genere di pittura» (Donati 2016, p. 172).
Proprio a partire dal dipinto Koelliker e dagli altri della serie, la scelta di una pittura che ruota intorno al lume della candela, integralmente puntata sui contrasti di luce e sulla drammaticità della scena, segna un passaggio di grande importanza nell’arte del primo Seicento, di cui Saraceni – che qui si gioca tutta l’esperienza fatta presso Adam Elsheimer (1578-1610) nel suo secondo discepolato a Roma e in rapporto al Merisi – è protagonista e apripista per la grande avventura del caravaggismo settentrionale, basti per esempio pensare a Honthorst.
Vale la pena di accennare a questo punto ad un piccolo mistero, nel già complesso sistema delle repliche organizzato da Saraceni. L’intera bibliografia – Spike (2003), Papi (2005 e 2006), Coco (2014) e Donati (2017) – identifica il dipinto Koelliker con la versione passata in asta da Christie’s New York il 6 giugno 1984 (lotto 179, con misure leggermente diverse dalla tela Koelliker: 91,3x73,5 cm contro 92x76,5 cm), suffragata, come si legge nel catalogo d’asta da «a certificate from G. C. Argon [= Argan] and letters from Giuliano Briganti (1980) and Anna Ottani Cavina (1981), all stating the painting to be an autograph work by Carlo Saraceni». L’opera Christie’s è anche citata al n. 28 da Giuliano Briganti nel volumetto “Mostra di Pittori Italiani del Seicento”, apparso a Roma nel 1944, presso il mitico Studio d’Arte Palma (fondato da Pietro Maria Bardi nel maggio 1944, a poche settimane dalla Liberazione, come tentativo di coniugare attività espositive, mercantili e di centro di restauro). Tuttavia, comparando l’immagine a colori in catalogo ed anche una foto in bianco e nero conservata presso la fototeca di Benedict Nicolson (Kunsthistorisches Institut, Firenze, scheda 419902, negativo 17.545), la tela apparsa a Christie’s differisce dalla tela Koelliker per alcuni minuti dettagli, e quindi l’identità dei due dipinti, pur solida in letteratura, ci appare questionabile: per esempio, il pollice in vista nella mano che regge la candela, mentre esso è ripiegato e non visibile nella versione Koelliker; il pendente, la spilla e la catena dorata di Giuditta maggiormente in ombra e solo in parte visibili nella versione Koelliker; ed il decoro sul braccio di Giuditta, invece, meno visibile nella tela Christie’s.
Ne deriva che, della particolare composizione con la tenda rossa, individuata da Papi (2003, 2006) e di cui l’opera in esame è il prototipo autografo, vi siano quantomeno sei repliche o copie (le due note a Papi, 2003, e precisate da Anna Ottani Cavina, cioè l’opera già in collezione Giuliano Briganti e quella nella collezione madrilena Serrano Oriol, e inoltre la tela della Galleria Estense di Modena, una tela apparsa a Sotheby’s nel 1979 – se diversa da –, una tela presso Robilant & Voena, la tela apparsa a Sotheby’s nel 2023 e pubblicata da Donati nel 2016), se non sette, qualora l’opera Christie’s sia altra da quella Koelliker, il che attesta la grande fortuna di questa soluzione.
Osservando il quadro in modo ravvicinato emergono piccoli aggiustamenti nella figura della fantesca (per esempio, il naso e il dito in vista, mentre sotto la testa di Oloferne sembra emergere un disegno carbonioso a profilare parte dell’ovale e sotto le orbite di Giuditta, forse, accenni di un disegno a pennello.
Maria Giulia Aurigemma ha confermato l'opinione in favore dell'autografia già espressa nel catalogo del 2014 a sua cura (comunicazione del 20 dicembre 2023) e Gianni Papi ha ribadito la piena autografia dell’opera già espressa nella sua pubblicazione del 2006 (comunicazione del 24 ottobre 2023).

Ringraziamo i Professori Maria Giulia Aurigemma e Gianni Papi per il prezioso supporto nella catalogazione dell’opera.
L'asta include 100 lotti di varie provenienze, tra cui Veneto Banca SpA in LCA.

Per avere una visione completa dell’asta e del suo funzionamento si consultino, oltre al catalogo digitale dei lotti, le Regole della Vendita.

Chi partecipa all'asta dichiara di aver letto e compreso il Regolamento di vendita, come integrato dagli Aggiornamenti. Le commissioni d'asta, computate sul prezzo di aggiudicazione di ogni singolo lotto, sono pari a: per la parte del prezzo di aggiudicazione da € 0 fino a € 50.000, 26,64% + IVA; per la parte del prezzo di aggiudicazione da € 50.000 fino a € 1.600.000, 23,37% + IVA; per la parte del prezzo di aggiudicazione oltre € 1.600.000, 16,80% + IVA. Il pagamento deve avvenire tramite bonifico bancario entro 35 giorni naturali dalla seduta d'asta. Le penali per il tardivo pagamento sono pari al 20% dell'importo dovuto. L'importo dovuto per il tardivo ritiro corrisponde a tutte le spese sostenute dalla casa d'aste per ritirare il lotto nei modi posti dalle Regole della Vendita a carico dell'acquirente, per movimentarlo e per stoccarlo adeguatamente, inclusa protezione assicurativa, fino al ritiro da parte dello stesso o alla sua vendita forzata.
Olio su tela
92 x 76,5 cm

Elementi distintivi:
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Provenienza:
Collezione privata; Christie’s, New York ("Important Paintings by Old Masters", 6 giugno 1984, lot 179, Saraceni) (?); Farsetti, Prato (14 maggio 2002, l. 1065, Saraceni); Collezione Koelliker (novembre 2002)

Bibliografia :
G. Briganti, “Mostra di Pittori Italiani del Seicento”,Roma, 1944, n. 28 (?); Christie’s, "Important Paintings by Old Masters", lotto 179, 6 giugno 1984, New York (?); J. T. Spike, scheda, in J. Blunden, a cura di, "Caravaggio & his world: darkness & light", catalogo della mostra, (Syndey, Art Gallery of New South Wales; Melburne, National Gallery of Victoria), Sydney 2003, pp. 182-183, cat. 52 (Saraceni, 1620); G. Papi, scheda, in J. Milicua, a cura di, "Caravaggio y la pintura", catalogo della mostra, (Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya), Barcellona 2005, p. 277 (Saraceni); G. Papi, scheda, in G. Papi, a cura, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra (Ariccia, Palazzo Chigi), Milano 2006, pp. 102-105 n. 24 (Saraceni, verso il 1615); S. Benedetti," The 'schola' of Caravaggio. Ariccia", «The Burlington Magazine», CIL, feb. 2007, p. 129 (Saraceni e bottega); G. Coco, scheda n. 34, in M. G. Aurigemma, a cura di, "Carlo Saraceni 1579-1620. Un Veneziano tra Roma e l'Europa", catalogo della mostra (Roma, Palazzo Venezia), 2014, pp. 239, ill. p. 238 (Saraceni); A. Donati, "Una Giuditta di Saraceni e una Vanità di Cagnacci", in «Arte/Documento», n. 33, 2016, pp. 172 (Saraceni, verso il 1615)

Esposizioni:
J. Blunden, a cura di, "Caravaggio & his world: darkness & light", Syndey, Art Gallery of New South Wales; Melburne, National Gallery of Victoria, 2003, cat. 52; G. Papi, a cura, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra (Ariccia, Palazzo Chigi), Milano 2006, pp. 102-105 n. 24

Certificati:
lettera di Mina Gregori (come Carlo Saraceni; copia fotostatica); scheda di Gianni Papi (come Carlo Saraceni e Bottega, aprile 2003; copia fotostatica)

Stato di conservazione:
Condizione supporto: 90% (in prima tela, con alcuni sfondamenti opportunamente suturati)
Condizione superficie: 80% (cadute di colore, integrazioni e ritocchi, vernice protettiva)

La “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne” del veneziano Carlo Saraceni (1579 circa –1620), invenzione tra le più fortunate del primo caravaggismo che osserviamo qui in un prototipo autografo, rielabora due opere capitali del Merisi - la “Giuditta” di Palazzo Barberini (1602), di cui è citata la testa della vecchia, e “Davide con la testa di Golia” della Galleria Borghese (1609-1610), che fa da modello per il capo mozzato – letteralmente, in una luce nuova, costruita intorno ad una candela: la luce interna, notturna, del tenebroso caravaggismo nordico.
Poco dopo il 1610, secondo la critica Saraceni elabora una prima versione del soggetto “rieditando” un prezioso dipinto di Lorenzo Lotto di un secolo prima (è datato 1512, collezione BNL) in due opere conservate alla Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda e ai Musei Civici di Verona. Poi sterza verso il naturalismo, e rappresenta – in una tela conservata presso il Kunsthistorisches Museum di ideazione completamente nuova - se stesso nella testa mozzata di Oloferne, come Caravaggio aveva fatto nel “Davide e Golia”, e Giuditta e la fantesca quasi costrette in uno spazio esiguo e drammatico (la fantesca addirittura tiene sollevato con i denti il sacco in cui viene riposta la testa), primariamente definito dall’irradiarsi della luce. Questa invenzione ha una potenza dirompente, e non smette di affascinare i pittori e i collezionisti ben oltre i confini d’Italia e i 41 anni di vita concessi a Saraceni: Anna Ottani Cavina, alla voce “Saraceni”, ultimata nel 2017, del “Dizionario Biografico degli Italiani”, ricorda che sono decine i dipinti riconducibili a questo modello: la cui diffusione in repliche e copie punteggia così lo sviluppo del Caravaggismo, soprattutto nel suo transito verso il Nord Europa, sino alle versioni introdotte da David Teniers il Giovane (1610-1690) nei suoi famosi “cabinets d’amateur”.
Delle moltissime versioni esistenti, le prime e principali – tra cui il dipinto in esame – vengono create tutte nella bottega e sotto la regia, se non dalla mano, di Saraceni, che ne definisce le principali varianti: lo sviluppo delle quali, paradossalmente, testimonia – insieme all’espansione del naturalismo – la progressiva distanza dal maestro.
Il complesso impiego di prototipi, repliche con varianti e copie messo in atto da Carlo Saraceni nella propria bottega quantomeno a partire dagli anni dieci del Seicento è bene illustrato da Yuri Primarosa in due recenti contributi ("L’originale ritrovato. Carlo Saraceni e l’ "Angelo che veglia il Bambino Gesù con la Vergine e sant’Anna” tra repliche autografe, derivazioni e copie", in P. Di Loreto, a cura di, "Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri", Roma, 2018, pp. 174-180 e "Nuova luce su Carlo Saraceni: La Madonna del Pilar di S. Maria in Monserrato e altri inediti", in «Storia dell’Arte», Inverno 2018, pp. 73-74 e 75 nn. 18-19).
Saraceni, giunto a Roma nel 1598 e subito entrato nella vita artistica cittadina, prima appoggiandosi allo scultore vicentino Camillo Mariani (1567-1611) e poi al pittore tedesco Adam Elsheimer (1578-1610), si guadagna rapidamente l’amicizia di Caravaggio di cui, per parafrasare Manzoni e Longhi insieme, lava il realismo e i violenti chiaroscuri nel tonalismo neo-giorgionesco della laguna veneta.
È un rapporto che si può seguire nella evoluzione dello stile, nella scelta dei soggetti e persino nelle carte processuali, a proposito dell’omicidio di Ranuccio Tomassoni, a quanto pare ad opera di Caravaggio, il 28 maggio 1606: infatti, in una deposizione del 2 novembre 1606 il rivale pittore Giovanni Baglione accusò Saraceni e Borgianni «aderenti al Caravaggio» di averlo aggredito tramite un sicario per contrastare, da parte dei caravaggeschi (già allora così indicati), l’elezione del nuovo principe dell’Accademia di S. Luca, pilotata da Baglione in qualità di principe uscente (L. Spezzaferro, Una testimonianza per gli inizi del caravaggismo, in «Storia dell’arte», 1975, n. 23, pp. 53-60; sul tema anche Isabella Salvagni, "Gli «aderenti al Caravaggio» e la fondazione dell’Accademia di San Luca. Conflitti e potere (1593-1627)", in M. Fratarcangeli, a cura di, "Intorno a Caravaggio. Dalla formazione alla fortuna", Roma 2008, pp. 41-74; 83-124).
Saraceni emerge come un uomo dal piglio pratico, che tiene saldamente in mano i suoi affari, in testa al movimento caravaggesco a Roma: anche prima del 1610, anno della morte del maestro, come dimostrano proprio Baglione col denunciarlo e il pressoché contemporaneo affidamento da parte dei Carmelitani scalzi di una pala d’altare con la “Morte della Vergine” per sostituire quella ‘scandalosa’ dipinta da Caravaggio nel 1604 su commissione del giurista Laerzio Cherubini per la propria cappella nella chiesa di Santa Maria della Scala.
Un atteggiamento tenuto anche nella gestione della bottega e dei commerci: egli eseguiva «abitualmente delle repliche di piccolo formato delle sue opere più famose» in prima persona o affidandole agli allievi, «nel suo atelier di “strada Ripetta verso San Giacomo”». «Ma si trattava di “ricordi” che rimanevano nella bottega a memoria dei più importanti lavori eseguiti? Oppure di una sorta di vetrina o campionario da mostrare ai potenziali clienti che potevano richiedere al pittore altre repliche delle opere visionate? Con ogni evidenza la risposta è affermativa per entrambi i quesiti. Gli originali, le seconde o le terze versioni autografe, i dipinti a quattro mani e le copie da questi derivate contribuivano, assieme alle stampe, a diffondere l’opera dell’artista e ad accrescerne la reputazione su scala europea» (Primarosa, 2018, “L’originale ritrovato. Carlo Saraceni etc”, pp. 73-74).
È una prassi comune a molti artistici veneti, da Tiziano a Canova (G. Tagliaferro, “The composition of themes and variations by Titian and his workshop”, in P. Humfrey, a cura di, “Titian. Themes and Variations”, Firenze, 2023, pp. 12-37; P. Mariuz, “Lo studio di Canova a Roma”, in G. Pavanello, a cura di, “Canova. Eterna Bellezza”, Cinisello Balsamo, 2019, pp. 44-55), che vede l’autore consapevole del valore – autonomo e persistente – della propria invenzione, diffusa attraverso uno studiato sistema di variazioni e repliche: in cui varia il coinvolgimento manuale, ma di cui resta indiscutibile e fondamentale la titolarità intellettuale. Ed ha un effetto diretto sul piano attributivo poiché l’autografia, l’autenticità, in questa ottica strettamente aderente alla realtà della bottega, non può più essere ristretta alla esecuzione materiale del lavoro. Nel nostro caso, la bottega stessa va intesa come strumento produttivo di Saraceni.
Da questa prospettiva, aggiornata e pungente, è ora possibile esaminare la tela in studio nel catalogo – molto ricco – delle tele saraceniane raffiguranti “Giuditta e la fantesca con la testa di Oloferne”. Essa proviene dalla collezione di Luigi Koelliker, come bene scrive Sergio Benedetti, «without question the most ambititous and passionate collector of Italian paintings today» (Benedetti 2007, p. 127).
La restituzione a Saraceni si deve a Mina Gregori, che in una lettera al proprietario, non datata ma antecedente al 2003, offre un primo inquadramento anche per il complesso argomento delle repliche e della loro cronologia: «soggetto prediletto di Carlo Saraceni, e trattato in epoche diverse della sua attività, fu la “Giuditta con la testa di Oloferne assistita dalla fantesca”. Se ne conoscono alcune redazioni più o meno simili, rappresentate da quella, sostanzialmente diversa nello schema, di Dresda, e da quella del Museo di Lione, che sono da ritenersi le più antiche essendovi il gioco delle ombre meno drammatico. Più mature, e da datarsi intorno alla metà del secondo decennio del Seicento, sono le trattazioni autografe, abbastanza simili tra loro, ma con sostanziali varianti, del museo di Vienna (in questa si riconosce, nella testa, di Oloferne, l’autoritratto del pittore) e della Collezione Longhi. A questi due esemplari indiscussi si deve oggi aggiungere la Sua inedita “Giuditta” […] La finezza dell’esecuzione di questo dipinto, la lievità delle ombre e delle luci che sfiorano la testa e lo scollo della protagonista, e rivelano la vecchiezza della fantesca, il particolare, assente nelle altre redazioni, della tenda (di un rosso ciliegia e di una stesura che sono caratteristica del Saraceni) consentono di affermare senza riserve che siamo di fronte a un altro originale del maestro».
Concorda con Mina Gregori, Gianni Papi, che torna a più riprese sulla tela Koelliker, dapprima in uno studio inedito, datato nell’archivio Koelliker all’aprile 2003, in cui accosta la tela «strettamente» alla versione Longhi, «reputata unanimemente autografa, insieme a quella del Kunsthistorisches Museum di Vienna, probabilmente di datazione più precoce (si può azzardare l’inizio del secondo decennio […])». Difatti la «redazione in oggetto ripete fedelmente l’iconografia del quadro Longhi […] ma aggiunge in alto a destra il drappo rosso, simile a un sipario che si apre, di caravaggesca ascendenza». Questo motivo – segnala lo studioso - non compare in nessuna delle opere considerate originali o copie nei regesti di Anna Ottani Cavina e Benedict Nicolson (A. Ottani Cavina, “Carlo Saraceni”, Vicenza, 1968, pp. 99, 104-105, 125-127; B. Nicolson, “Caravaggism in Europe”, Torino, 1990, I, pp. 169-170) «mentre due altre versioni di questo tipo – di qualità sicuramente inferiore alla presente – sono documentate da altrettante foto conservate presso la Fondazione Roberto Longhi di Firenze (la prima segnalata genericamente in collezione privata, la seconda in una raccolta di Madrid)». Conclusivamente lo studioso segnala che la «redazione Koelliker è sicuramente la più bella fra le tre che presentano il motivo del drappeggio rosso, ma a mio avviso ciò non è comunque sufficiente per dichiarare la sicura autografia della tela, che mostra una certa meccanicità in alcuni passaggi, come ad esempio le pieghe della bianca camicia di Giuditta o il distendersi un po’ pesante dell’ombra sul suo petto. Dal confronto con la versione autografa più prossima, cioè quella Longhi, si potrà notare come quest’ultima offra una pittura più sfumata, come vi sia più soffice la struttura delle pieghe e più lieve il contorno delle figure, dei tratti delle fisionomie», talché appare, nella versione Koelliker, «l’intervento della bottega del veneziano».
Tra il 2003 e il 2005, il dipinto ha subito un accurato intervento di restauro, eseguito da Carlotta Beccaria, che ha rimosso i «numerosi precedenti interventi di restauro sulle lacune» e le «velature di superficie eseguite per unificare le pennellate e rimuovere le linee della craquelure», restituendo morbidezza e leggerezza alle pennellate, particolarmente sul panneggio.
A seguito del restauro, Papi ha accettato la piena autografia dell’opera (2005, p. 277: «de todas ellas se deberá destacar la que recientemente ha llegado a la colección Koelliker de Milán, la cual, tras una cuidadosa restauracón, muestra una calidad que, a mi entender, la eleva a una nueva versión original», in spagnolo nel testo originale; 2006, p. 104: «il restauro che ha riguardato il dipinto dopo il suo ingresso nella collezione milanese ha confermato la paternità del pittore veneziano»).
Mentre Benedetti (2007, p. 129) legge nell’opera, a fianco al maestro, l’ampio intervento della bottega («executed largely in Carlo Saraceni’s worshop»), John Thomas Spike (2003, cat. 52) ne accetta la piena autografia e la data alla fine della vita dell’artista (1620): «The present “Judith” is the most recent to come to light and gain the consensus of scholars. Its noticeable refinements over the examples in Vienna and in the Longhi Foundation in Florence suggest that this version is the most advanced of the series, executed shortly before the painter’s untimely death in 1620». La datazione non è molto dissimile da quella assegnata da Anna Ottani Cavina al dipinto in collezione Longhi (1618, A. Ottani Cavina, “Carlo Saraceni”, Vicenza, 1968, cat. 14).
Spike coglie qui anche un fondamentale elemento di stile, segnalando come Saraceni tratti il tema in modo visibilmente diverso negli anni, dalla precoce versione viennese, in cui egli aveva dipinto il proprio volto nella testa mozzata di Golia, suscitando nell’osservatore un sentimento di suspence e rendendo palpabile la preoccupazione delle donne di essere scoperte, fino alla versione attuale, che suggerisce un senso di «sensuale intimità» («sexual intimacy»).
Preferisce una datazione meno inoltrata nel secolo Gianni Papi: «sebbene sia molto difficile avanzare una data sicura, propenderei per una cronologia più precoce e forse intermedia fra il dipinto viennese e quello Longhi: l’opera potrebbe dunque essere stata eseguita in prossimità della metà del secondo decennio» (Papi 2006, p. 104). E’ un periodo in cui il prestigio di Saraceni era ben consolidato a Roma, come testimoniano importanti commissioni per prestigiose pale d’altare per chiese cittadine e della provincia oppure, per esempio, la decorazione della Sala Regia voluta da papa Paolo V in Quirinale, cui l’artista lavora tra il 1616 e 1617.
Anche nel catalogo della mostra monografica dedicata all’artista nel 2014 da Maria Giulia Aurigemma, l’opera è accolta come pienamente autografa, nella scheda dedicata da Giulia Coco alla versione della Fondazione Roberto Longhi (Coco 2014, p. 239) e, per la sua grande bellezza, addirittura è l’unica versione riprodotta nella scheda (p. 238): «Ritenuto autentico da Argan, Ottani Cavina, Briganti e Papi è anche il dipinto già in asta Farsetti Prato, oggi in collezione Luigi Koelliker, definito da Mina Gregori “senza riserve […] un altro originale del maestro». «Si tratta di una versione alternativa a quella Longhi» e del «prototipo per due copie segnalate da Ottani Cavina: la prima a Madrid, presso la Galleria Quixquote, identificata da Longhi in un appunto manoscritto come “Prop. Federico Serrano Oriol lista 42 Madrid Abril 1959” (Fototeca Roberto Longhi, inv. 1070262); la seconda nella Galleria Estense di Modena dal 1964 (lascito Ferruccio Cami), ritenuta autentica da Ghidiglia Quintavalle e definita da Ottani Cavina grossolana opera di bottega, caratterizzata da una generale opacità della materia pittorica e da ombre caricate ed effettistiche (Pérez Sánchez 1965, Ottani Cavina 1968). Copie dello stesso autografo sono anche l’esemplare già presso Sotheby’s (1979) e un dipinto noto da una fotografia nella fototeca Giuliano Briganti di Siena (inv. B11319)» (Coco 2014, p. 239).
L’opera è autografa di Carlo Saraceni anche per Chiara Marin (comunicazione del 4 marzo 2011, di cui resta registrazione negli archivi della proprietà: «Saraceni»).
La piena autografia è accettata, infine, nel contributo più recente sulle versioni saraceniane di “Giuditta e Oloferne”, firmato da Andrea Donati (2016, p. 172): «La “Giuditta” è nota in almeno quattro redazioni autografe: il quadro della Fondazione Longhi di Firenze (olio su tela, cm 95,8 x 77,3, inv.83), dato da Giulia Coco al 1618 (ma la foto stampata riproduce il dipinto Koelliker non quello Longhi!), quello del Kunsthistorisches Museum, quello della raccolta Manusardi (già Finarte, nel 1963) e quello della collezione Koelliker di Milano (olio su tela, cm 92x76,5 cm) proveniente dalla vendita Christie’s, New York, 6 Giugno 1984, Lotto 179», cui lo studioso aggiunge, quale nuova proposta, un dipinto già in collezione belga (proposto in asta a Sotheby’s Parigi il 13 giugno 2023, lotto 21). Donati concorda con Papi sulla datazione, proprio percorrendo a ritroso il ragionamento di Spike sul rapporto con il caravaggismo («John Spike ha datato il dipinto Koelliker verso il 1620, anno della morte di Saraceni, Gianni Papi invece verso il 1615. Anticipare la datazione a mio avviso è più corretto, perché l’invenzione non è la prova finale di un’adesione convinta e netta al caravaggismo, bensì l’esito sperimentale di un soggetto famoso e assai praticato dagli artisti»). Donati svolge anche un acuto insight nel processo creativo dell’opera, comparando la prima versione – dipendente da Lotto – al filone cui appartiene la versione Koelliker, caratterizzata da un aperto richiamo a Caravaggio, modello ormai tanto cercato dal mercato da imporre al concreto Saraceni chiare linee di stile: «Quando Saraceni inventò la “Giuditta” era ormai lontano dal sentimento caravaggesco, ma sapeva che non poteva ignorare un fenomeno di portata europea. Ci voleva dunque una soluzione d’astuzia, che assecondasse forse il desiderio di un cliente esigente, dal gusto moderno, a caccia di un effetto speciale, ma che non tradisse del tutto il modo di sentire del pittore, orientato verso un ripensamento dalla pittura veneta sempre più decisivo. Saraceni doveva competere a Roma in un mercato straordinariamente agguerrito, in cui la pittura caravaggesca era di moda. Il cliente che egli aveva per le mani», cioè il committente del prototipo di questa nuova versione di “Giuditta e Oloferne” «doveva essere uno di coloro che ambivano a questo genere di pittura» (Donati 2016, p. 172).
Proprio a partire dal dipinto Koelliker e dagli altri della serie, la scelta di una pittura che ruota intorno al lume della candela, integralmente puntata sui contrasti di luce e sulla drammaticità della scena, segna un passaggio di grande importanza nell’arte del primo Seicento, di cui Saraceni – che qui si gioca tutta l’esperienza fatta presso Adam Elsheimer (1578-1610) nel suo secondo discepolato a Roma e in rapporto al Merisi – è protagonista e apripista per la grande avventura del caravaggismo settentrionale, basti per esempio pensare a Honthorst.
Vale la pena di accennare a questo punto ad un piccolo mistero, nel già complesso sistema delle repliche organizzato da Saraceni. L’intera bibliografia – Spike (2003), Papi (2005 e 2006), Coco (2014) e Donati (2017) – identifica il dipinto Koelliker con la versione passata in asta da Christie’s New York il 6 giugno 1984 (lotto 179, con misure leggermente diverse dalla tela Koelliker: 91,3x73,5 cm contro 92x76,5 cm), suffragata, come si legge nel catalogo d’asta da «a certificate from G. C. Argon [= Argan] and letters from Giuliano Briganti (1980) and Anna Ottani Cavina (1981), all stating the painting to be an autograph work by Carlo Saraceni». L’opera Christie’s è anche citata al n. 28 da Giuliano Briganti nel volumetto “Mostra di Pittori Italiani del Seicento”, apparso a Roma nel 1944, presso il mitico Studio d’Arte Palma (fondato da Pietro Maria Bardi nel maggio 1944, a poche settimane dalla Liberazione, come tentativo di coniugare attività espositive, mercantili e di centro di restauro). Tuttavia, comparando l’immagine a colori in catalogo ed anche una foto in bianco e nero conservata presso la fototeca di Benedict Nicolson (Kunsthistorisches Institut, Firenze, scheda 419902, negativo 17.545), la tela apparsa a Christie’s differisce dalla tela Koelliker per alcuni minuti dettagli, e quindi l’identità dei due dipinti, pur solida in letteratura, ci appare questionabile: per esempio, il pollice in vista nella mano che regge la candela, mentre esso è ripiegato e non visibile nella versione Koelliker; il pendente, la spilla e la catena dorata di Giuditta maggiormente in ombra e solo in parte visibili nella versione Koelliker; ed il decoro sul braccio di Giuditta, invece, meno visibile nella tela Christie’s.
Ne deriva che, della particolare composizione con la tenda rossa, individuata da Papi (2003, 2006) e di cui l’opera in esame è il prototipo autografo, vi siano quantomeno sei repliche o copie (le due note a Papi, 2003, e precisate da Anna Ottani Cavina, cioè l’opera già in collezione Giuliano Briganti e quella nella collezione madrilena Serrano Oriol, e inoltre la tela della Galleria Estense di Modena, una tela apparsa a Sotheby’s nel 1979 – se diversa da –, una tela presso Robilant & Voena, la tela apparsa a Sotheby’s nel 2023 e pubblicata da Donati nel 2016), se non sette, qualora l’opera Christie’s sia altra da quella Koelliker, il che attesta la grande fortuna di questa soluzione.
Osservando il quadro in modo ravvicinato emergono piccoli aggiustamenti nella figura della fantesca (per esempio, il naso e il dito in vista, mentre sotto la testa di Oloferne sembra emergere un disegno carbonioso a profilare parte dell’ovale e sotto le orbite di Giuditta, forse, accenni di un disegno a pennello.
Maria Giulia Aurigemma ha confermato l'opinione in favore dell'autografia già espressa nel catalogo del 2014 a sua cura (comunicazione del 20 dicembre 2023) e Gianni Papi ha ribadito la piena autografia dell’opera già espressa nella sua pubblicazione del 2006 (comunicazione del 24 ottobre 2023).

Ringraziamo i Professori Maria Giulia Aurigemma e Gianni Papi per il prezioso supporto nella catalogazione dell’opera.
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