Lotti Bonino

Lot 299

Carlo Saraceni (1579 – 1620) , e bottega

“Madonna con Bambino, sant’Anna e angelo”, detta anche “Madonna del sonno” o “Un angelo veglia il Bambin Gesù con la Vergine e sant’Elisabetta”, 1610-1615

La seduta d'asta si tiene il 15 maggio 2024 alle 15:30 (IT Time)
Stima €130000 - €160000
Lotto aggiudicato a € 100000.00
Olio su tela
89,5 x 125 cm

Elementi distintivi:
sulla cornice al verso, in pennarello nero, «LK1516»; sull’asse superiore del telaio, in pennarello nero, «LI»; sull’asse inferiore, etichetta battuta a macchina, applicata con tre puntine «"MADONNA CON BAMBINO, S. GIOVANNINO E S.ANNA" di Saraceni. (Acquistato all’asta della Galleria IL PRATO di Firenze il 20/11/70 per £.507.060)»

Provenienza:
Giovan Angelo Altemps (1587-1620; inv. del 1618-1619, «un quadro grande» di «Carlo Venetiano» raffigurante «la Madonna, Santa Elisabetta e Nostro Signore con un angiolo») ?; Galleria Il Prato, Firenze, 20.11.1970; Collezione Koelliker (novembre 2002)

Bibliografia :
G. Papi, scheda in, G. Papi, a cura di, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra, a cura di G. Papi, Milano 2006, pp. 106-107, cat. 25 (Saraceni); S. Benedetti," The 'schola' of Caravaggio. Ariccia", «The Burlington Magazine», CIL, feb. 2007, p. 129 (Saraceni e bottega); Y. Primarosa, "L’originale ritrovato. Carlo Saraceni e l’ "Angelo che veglia il Bambino Gesù con la Vergine e sant’Anna” tra repliche autografe, derivazioni e copie", in P. Di Loreto, a cura di, "Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri", Roma, 2018, pp. 174-180 (collaboratori di Saraceni, su prototipo di Saraceni); Y. Primarosa, "Nuova luce su Carlo Saraceni: La Madonna del Pilar di S. Maria in Monserrato e altri inediti", in «Storia dell’Arte», Inverno 2018, pp. 73-74 e 75 nn. 18-19, (collaboratori di Saraceni, su prototipo di Saraceni)

Esposizioni:
G. Papi, a cura di, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", (Ariccia, Palazzo Chigi), 13 ottobre 2006 - 11 febbraio 2007, Ariccia, Palazzo Chigi

Stato di conservazione:
Condizione supporto: 80% (reintelo; riduzione di alcuni centimetri sul lato sinistro)
Condizione superficie: 85% (cadute di colore diffuse, anche sui visi; forse uno sfondamento della tela; riprese pittoriche e vernice protettiva, anche sulla testa del Bambino)

Il veneziano Carlo Saraceni (1579 circa –1620) fu uno dei primi seguaci di Caravaggio, cui, per usare le parole di Roberto Longhi, diede una interpretazione «neo-giorgionesca» fondendo il realismo del maestro lombardo con la pittura tonale di impronta veneta. Giunge a Roma nel 1598 dove frequenta la bottega dello scultore vicentino Camillo Mariani (1567-1611) per passare presto a servizio del pittore tedesco Adam Elsheimer (1578-1610). Tra il 1609 e il 1610 dipinge il “Transito della Vergine”, preferito dai Carmelitani scalzi alla “Morte della Vergine” di Caravaggio, per decorare seconda cappella a sinistra della chiesa trasteverina di Santa Maria della Scala. Come testimoniano altre prestigiose committenze – dalla decorazione a fresco della sala regia del Quirinale alle tele per San Lorenzo in Lucina e Santa Maria dell’Anima, sino al telero raffigurante “Enrico Dandolo e i capitani crociati” per la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia – Saraceni fu eccezionale pittore ma anche grande promotore della propria opera.
Secondo una brillante intuizione di Yuri Primarosa, egli eseguiva «abitualmente delle repliche di piccolo formato delle sue opere più famose» in prima persona o affidandole agli allievi, «nel suo atelier di “strada Ripetta verso San Giacomo”». «Ma si trattava di “ricordi” che rimanevano nella bottega a memoria dei più importanti lavori eseguiti? Oppure di una sorta di vetrina o campionario da mostrare ai potenziali clienti che potevano richiedere al pittore altre repliche delle opere visionate? Con ogni evidenza la risposta è affermativa per entrambi i quesiti. Gli originali, le seconde o le terze versioni autografe, i dipinti a quattro mani e le copie da questi derivate contribuivano, assieme alle stampe, a diffondere l’opera dell’artista e ad accrescerne la reputazione su scala europea» (Primarosa, 2018, “L’originale ritrovato. Carlo Saraceni etc”, pp. 73-74).
Il giovane studioso disegna così per Saraceni una prassi comune a molti artistici veneti, quantomeno da Tiziano a Canova (G. Tagliaferro, “The composition of themes and variations by Titian and his workshop”, in P. Humfrey, a cura di, “Titian. Themes and Variations”, Firenze, 2023, pp. 12-37; P. Mariuz, “Lo studio di Canova a Roma”, in G. Pavanello, a cura di, “Canova. Eterna Bellezza”, Cinisello Balsamo, 2019, pp. 44-55), che vede l’autore consapevole del valore – autonomo e persistente – della propria invenzione, diffusa attraverso uno studiato sistema di variazioni e repliche: in cui varia il coinvolgimento manuale, ma di cui resta indiscutibile e fondamentale la titolarità intellettuale.
Appare questo, oggi, il più aggiornato punto di vista per affrontare anche la «analisi comparata delle numerose repliche della Madonna del sonno […,] un caso studio di grande interesse, trattandosi fuor di dubbio dell’invenzione più copiata» di Carlo Saraceni (ibidem, p. 74). Sono ben dodici le opere – oggi note – testimoni di questa invenzione, stesure originali e repliche realizzate da Saraceni o quantomeno sotto il suo diretto controllo, nonché copie. Tre di esse – oggi all’Honolulu Museum of Fine Arts, al Museé Fesh e in collezione privata con provenienza da Giancarlo Baroni – sono su rame, tecnica impiegata anche in una quarta versione, nella collezione di Aldo Briganti nel 1948 e ora dispesa (Letizia Treves, scheda 32, in Maria Giulia Aurigemma, a cura di, “Carlo Saraceni. 1579-1620. Un Veneziano tra Roma e l’Europa, Roma, 2014, pp. 233-235). Otto, invece, sono su tela: due connesse a collezioni nobiliari (Pallavicini e Altemps), due in collocazione pubblica (Muzeum Narodowe di Varsavia e Badia della Trinità a Cava dei Tirreni) e due in collezione privata (una a Roma e l’altra già in asta con Samuel T. Freeman & Co., 10 luglio 2021, l. 91), oltre al dipinto in esame, che proviene dalla collezione di Luigi Koelliker, come bene scrive Sergio Benedetti, «without question the most ambititous and passionate collector of Italian paintings today» (Benedetti 2007, p. 127).
Il dipinto è stato reso noto da Gianni Papi, nella mostra “La “schola” del Caravaggio. Dipinti dalla Collezione Koelliker“, tenutasi a Palazzo Chigi, ad Ariccia, nel 2006. Lo studioso, in ragione della «qualità sostenuta in tutta la superficie pittorica», la ritiene «una redazione autografa», opinione ribadita anche da ultimo con comunicazione del 24 ottobre 2023. Sergio Benedetti, nella recensione sistematica della mostra, ne completa la definizione attributiva osservando l’intervento della bottega («appear to have been largely executed in Carlo Saraceni’s workshop», Benedetti 2007, p. 129). Della stessa opinione Maria Giulia Aurigemma, che considera l’opera una ottima «replica di bottega sotto lo stretto controllo e con intervento del Maestro, secondo una prassi consueta» (comunicazioni del 2 novembre e del 20 dicembre 2023).
La collocazione tra le versioni prodotte dalla bottega di Saraceni è accettata da Yuri Primarosa («bottega, non copia», comunicazione del 18 dicembre 2023) e Chiara Marin (comunicazione del 4 marzo 2011, riportata in forma sintetica negli archivi della proprietà: «Penso che l’autore faccia parte della cerchia stretta degli allievi del Saraceni a Roma e l’allure francese, che mi è sembrato di poter individuare, mi fa pensare a Guy François»).
Letizia Treves ha efficacemente distinto queste opere – prototipi, repliche e copie – secondo tre famiglie con leggere differenze, che confermano come le varianti dell’idea siano state orchestrate nella bottega: le «composizioni sono simili, pur mostrando piccole differenze in alcuni dettagli, quali la parte superiore della canna di bambù in mano alla sant’Anna, l’orlo blu del suo copricapo, e le pieghe del panneggio giallo». Treves identifica due versioni primarie, il rame di Honolulu (con «la canna di bambù più corta e meno dettagliata, e con il copricapo privo dell’orlo blu») e il rame ex collezione Baroni (con «la canna più lunga e più definita, e con il copricapo munito dell’orlo blu»), da cui derivano due famiglie di repliche e copie mentre una terza famiglia, rappresentata dal rame di Ajaccio, «unisce elementi delle due prime categorie», il che fa pensare che le due versioni primarie «siano state nello studio di Saraceni contemporaneamente». All’esito del ragionamento, ad un certo punto modelli di tutte e tre le rappresentazioni si devono essere trovati presso la bottega del Saraceni (Letizia Treves 2014, p. 235). E rispetto all’ineguale esito materiale, il piano ideativo si conferma il tratto davvero caratterizzante: «Nonostante l’esecuzione spesso rozza delle copie e delle varianti sopra elencate, la raffinatezza e la complessità della composizione originale del Saraceni appaiono evidenti» (Letizia Treves 2014, p. 235).
Fino alla nitida intuizione di Yuri Primarosa, in parte anticipata dalle osservazioni appena esposte di Letizia Treves, il rapporto tra prototipi, repliche e copie è stato interpretato in modo slegato: come dipinti che apparivano all’orizzonte della storia dell’arte con una certa casualità e senza alcuna intenzionalità comune. Osservandoli sia come strumenti di promozione sia come prodotti finali per i diversi committenti e mercati, il ruolo di Saraceni – autore sempre dell’idea, “l’inventio” – e della bottega, esecutrice in modo più o meno esteso della produzione materiale – assumono un nuovo livello di organicità, con risvolti importanti sul piano attributivo. In altre parole, quali prodotti Saraceni voleva proporre sotto il suo nome, o il suo marchio? Che livello di qualità dovevano raggiungere? Ed oggi in che modo la critica si misura con queste opere? Tralasciando le copie, caratterizzate da una qualità nettamente più bassa (è il caso, per esempio, del dipinto passato presso Samuel T. Freeman & Co. nel 2021), la critica non è affatto concorde sulle opere a cui attribuire il ruolo di prototipi e/o la piena autografia. Per Treves, si è visto, autografi sono sostanzialmente solo i due rami di Honolulu ed ex Baroni. Gianni Papi considera autografe le versioni Koelliker, qui in esame, e quella del Muzeum Narodowe di Varsavia. Quest’ultima è ritenuta una replica da Bialostoski (1956, pp. 94-95, n. 83); Anna Ottani nel 1968 – da una riproduzione fotografica – non esclude che sia «addirittura autograf [a] data la sua qualità non comune»; Nicholson (1979, 1990, I, p. 171) la considera «original or good replica», mentre per Treves è una copia. Nel 1990, Anna Ottani identificò il prototipo della serie nel rame di Honolulu (al tempo sul mercato), ritenendo tuttavia probabile che Saraceni «avesse personalmente eseguito della medesima composizione anche una versione più grande, su tela» (come in Papi 2006, p. 106). Parimenti considerò il rame ex Baroni una copia dal rame di Honolulu, ma «a seguito di un più recente studio di questa opera, l’autrice ha rivisto la sua opinione facendo notare non soltanto che la sua qualità è notevolmente superiore a quella di tutte le altre varianti e copie conosciute, ma che mostra un grado di raffinatezza totalmente assente nelle altre versioni. In particolare il dipinto ex-Baroni differisce in numerosi dettagli dal rame di Honolulu, e non può quindi essere considerata come una mera copia pedissequa ma piuttosto in quanto variante di altissima qualità esecutiva all’interno stesso della bottega del Saraceni, molto probabilmente con l’intervento del maestro stesso» (Treves 2014, p. 235). A sua volta, Primarosa, in due contributi del 2018 che svolgono l’articolato ragionamento già esposto sulla finalità delle repliche saraceniane, identifica «il fortunato prototipo in “tela d’imperatore”», il «primo originale» in un dipinto in collezione privata, già appartenuto al duca Giovan Angelo Altemps (1587-1620).
Proprio l’inventario dei beni del duca, redatto verso il 1618-1619, consente a Primarosa di chiarificare il soggetto: è registrato infatti «un quadro grande» di «Carlo Venetiano» raffigurante «la Madonna, Santa Elisabetta e Nostro Signore con un angiolo». «Non è dunque Anna, come sinora ritenuto, ma verosimilmente Elisabetta a rivolgersi alla Vergine al cospetto del Bambino addormentato: un’epifania sacra nella forma di una visione mistica del figlio di Dio, annunciato a Maria dall’arcangelo Gabriele e dalla stessa Elisabetta durante la Visitazione» (Primarosa, “Nuova luce su Carlo Saraceni…”, p. 74). Se l’inventario è davvero traccia del corretto soggetto, esso acquista una originalità intellettuale spiccata, e la coperta che l’Angelo sta ponendo su Gesù diventa piuttosto un velo che scopre il Salvatore del mondo.
Vale la pena di osservare che la menzione nell’inventario Altemps identificata da Primarosa –“tela d’imperatore”, ossia 130x90 cm, si attaglia perfettamente sia alla tela da lui pubblicata (94x130 cm), sia al dipinto Kolliker, qui in esame (89,5x125 cm), sia alle tele di Varsavia (92,5x127 cm) e Pallavicini (97,3 x 134,5 cm), presentando tuttavia queste ultime due marcate caratteristiche di copia.
Abbiano quindi soltanto tre opere - tutte di altissima qualità e comunque certamente realizzate nella bottega del maestro - che secondo la critica aspirano al rango di invenzione originale e/o alla piena autografia, il rame di Honolulu (Ottani, Treves), la tela connessa all’inventario Altemps nel 2018 (Primarosa) e la tela Koelliker (Papi).
Sottolinea Papi, circa la tela in esame, che «la diffusa qualità (solo offuscata da qualche svelatura) trova momenti particolarmente significativi nel volto di profilo di sant’Anna, con la cuffia dal soffice cotone, brani tipicamente saraceniani, come quello del Bambino Gesù adagiato su un giaciglio di fasce virtuosisticamente intrecciate secondo viluppi serpentinati, nel modo tipico del pittore veneziano». La cronologia proposta dallo studioso è coerente con quella indicata da Ottani e Treves per il rame di Honolulu (poco dopo il 1610 ca): «Nella problematica cronologia del Saraceni, segnata da pochissimi punti fermi, il quadro potrebbe occupare una posizione nei primi anni del secondo decennio, quando il naturalismo caravaggesco che si spiegherà apertamente nelle tele del 1617-1618 di Santa Maria dell’Anima e di San Lorenzo in Lucina sembra ancora piuttosto lontano; così la “Madonna del Sonno” potrebbe semmai accostarsi al “Martirio di santa Cecilia” di Princeton, alle tele dipinte per la cattedrale di Toledo, del 1613-1614, al “Ritrovamento di Mosé” della Fondazione Longhi» (Papi 2006, p. 106).
Essenziale ora l’osservazione ravvicinata della tela in esame anche in rapporto alle altre versioni.
Innanzitutto, balza all’occhio un vistoso pentimento sulla testa della anziana, di cui l’orecchio in vista risulta dipinto due volte e spostato. Parimenti il fazzoletto da capo, dietro al collo, risulta in parte ricoperto per accentuare il distacco del fiocco dalla carne e rendere più squillante il bianco; la pittura sporca di nero sopra la pelle del collo è un abile gioco di realismo tipicamente caravaggesco (riscontrabile, per esempio, nella “Madonna dei Pellegrini”; mentre la mano della Vergine protesa verso l’osservatore è una chiara citazione della “Cena in Emmaus”, oggi alla National Gallery); i capelli del Bambino sono in parte dipinti sulla fascia bianca di Maria e la sua mano destra, resa in modo piuttosto geometrico, sembra esser stata leggermente riposizionata; la mano sinistra dell’angelo regge una parte della stola rossa; mentre la mano destra presenta piccole correzioni al mignolo, all’anulare e al dorso. Quasi invisibile è il nimbo del Bambino.
Confrontando il dipinto Koelliker con le altre opere, va notato che il dipinto di Honolulu è leggermente più esteso sulla sinistra, accentua l’espressività nei volti e mostra un diverso trattamento della veste della vecchia, più aperta e integralmente bordata di bianco sul collo, nonché il bastone più corto e il fazzoletto senza orlo colorato: si legge tuttavia, anche se non molto accentuato, il pentimento all’orecchio. Il dipinto in collezione privata romana (Fototeca Zeri n. 45980) presenta lo stesso pentimento all’orecchio (tuttavia non bene compreso dall’esecutore) nonché il fazzoletto da capo della anziana bordato di azzurro, ma il bastone termina in un legno spaccato, come il rame già in collezione Baroni. Di quest’ultimo è completamente diversa l’espressione sul volto del Bambino e sono meno accentuate le ombre proiettate dai piedi, con un evidente pentimento sul piede ripiegato all’interno, così come sulla spalla, che potrebbe essere stata ridotta anche nel dipinto in esame: le anatomie sono in generale molto curate (si veda per esempio il sedere del Bambino). Anche nel dipinto Baroni risulta molto evidente il pentimento sull’orecchio della anziana, invece scarsamente leggibile nel dipinto di Ajaccio, qualitativamente meno rilevante degli altri due rami e con un chiaro effetto di copia. Il dipinto del Muzeum Narodowe non presenta il pentimento all’orecchio né alla mano destra dell’angelo, pur appartenendo alla cosiddetta serie con il fazzoletto bordato: si collega al rame ex Baroni per l’elemento del bastone fratto. È un po’ più esteso sul lato inferiore e presenta una maggiore leggibilità delle parti in ombra. Il dipinto collegato nel 2018 all’inventario Altemps parimenti non presenta il pentimento sull’orecchio, mostra tuttavia il bastone intero (come l’opera in esame), e nel complesso le anatomie sono meno auliche e sospese e più intense e coinvolte (Maria nel dolore presagito e Elisabetta-Anna nella interrogazione), così come i panneggi. Soprattutto il copricapo dell’anziana continua sul petto e poi dietro le spalle; ed anche il drappo sul braccio sinistro sembra essere un autonomo pezzo di tessuto rispetto al vestito. Probabilmente per dare spazio a tale sviluppo, è più esteso a destra. Maggiore, si può dire, è in quest’ultimo quadro il gusto per il dettaglio disegnativo: si confrontino per esempio, con l’opera in studio, le pieghe del lenzuolo teso alle spalle di Cristo, e le ali dell’angelo. Diversa anche l’espressione della bocca, che si apre in una parola nel dipinto in esame, mentre appare quasi serrata nell’opera in confronto; la stessa torsione delle teste delle due donna appare leggermente diversa, quasi ad avvicinarle. Di esso è copia il dipinto della Galleria Pallavicini, in cui le fisionomie appaiono più caricate e marcatamente “romane”, il grafismo si accentua e maggiori sono le distanze dal neo-giorgionismo, anche luministico, di Saraceni: è forse l’esempio di una copia esterna alla bottega.
Anche considerando soltanto le varianti del bastone, del collo della veste della anziana, del suo copricapo, colorato o meno, ed esteso sulla spalla, ed infine il raddoppiamento sull’orecchio – visibile in modo del tutto peculiare nel dipinto in esame – la combinazione degli elementi costituisce i dipinti in una rete inestricabile, che rafforza per tutti la definizione di Carlo Saraceni (inventore sempre e talvolta, in tutto o in parte, esecutore) e bottega (quest’ultima con un ruolo materiale più o meno esteso).
Certo è che la versione in studio presenta varianti significative rispetto a tutte le altre versioni note, oltre che una qualità esecutiva particolarmente alta.

Ringraziamo i Professori Maria Giulia Aurigemma e Gianni Papi e il Dottor Yuri Primarosa per il prezioso supporto nella catalogazione dell’opera.
L'asta include 100 lotti di varie provenienze, tra cui Veneto Banca SpA in LCA.

Per avere una visione completa dell’asta e del suo funzionamento si consultino, oltre al catalogo digitale dei lotti, le Regole della Vendita.

Chi partecipa all'asta dichiara di aver letto e compreso il Regolamento di vendita, come integrato dagli Aggiornamenti. Le commissioni d'asta, computate sul prezzo di aggiudicazione di ogni singolo lotto, sono pari a: per la parte del prezzo di aggiudicazione da € 0 fino a € 50.000, 26,64% + IVA; per la parte del prezzo di aggiudicazione da € 50.000 fino a € 1.600.000, 23,37% + IVA; per la parte del prezzo di aggiudicazione oltre € 1.600.000, 16,80% + IVA. Il pagamento deve avvenire tramite bonifico bancario entro 35 giorni naturali dalla seduta d'asta. Le penali per il tardivo pagamento sono pari al 20% dell'importo dovuto. L'importo dovuto per il tardivo ritiro corrisponde a tutte le spese sostenute dalla casa d'aste per ritirare il lotto nei modi posti dalle Regole della Vendita a carico dell'acquirente, per movimentarlo e per stoccarlo adeguatamente, inclusa protezione assicurativa, fino al ritiro da parte dello stesso o alla sua vendita forzata.
Olio su tela
89,5 x 125 cm

Elementi distintivi:
sulla cornice al verso, in pennarello nero, «LK1516»; sull’asse superiore del telaio, in pennarello nero, «LI»; sull’asse inferiore, etichetta battuta a macchina, applicata con tre puntine «"MADONNA CON BAMBINO, S. GIOVANNINO E S.ANNA" di Saraceni. (Acquistato all’asta della Galleria IL PRATO di Firenze il 20/11/70 per £.507.060)»

Provenienza:
Giovan Angelo Altemps (1587-1620; inv. del 1618-1619, «un quadro grande» di «Carlo Venetiano» raffigurante «la Madonna, Santa Elisabetta e Nostro Signore con un angiolo») ?; Galleria Il Prato, Firenze, 20.11.1970; Collezione Koelliker (novembre 2002)

Bibliografia :
G. Papi, scheda in, G. Papi, a cura di, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", catalogo della mostra, a cura di G. Papi, Milano 2006, pp. 106-107, cat. 25 (Saraceni); S. Benedetti," The 'schola' of Caravaggio. Ariccia", «The Burlington Magazine», CIL, feb. 2007, p. 129 (Saraceni e bottega); Y. Primarosa, "L’originale ritrovato. Carlo Saraceni e l’ "Angelo che veglia il Bambino Gesù con la Vergine e sant’Anna” tra repliche autografe, derivazioni e copie", in P. Di Loreto, a cura di, "Originali, repliche, copie. Uno sguardo diverso sui Grandi Maestri", Roma, 2018, pp. 174-180 (collaboratori di Saraceni, su prototipo di Saraceni); Y. Primarosa, "Nuova luce su Carlo Saraceni: La Madonna del Pilar di S. Maria in Monserrato e altri inediti", in «Storia dell’Arte», Inverno 2018, pp. 73-74 e 75 nn. 18-19, (collaboratori di Saraceni, su prototipo di Saraceni)

Esposizioni:
G. Papi, a cura di, "La "schola" del Caravaggio. Dipinti della Collezione Koelliker", (Ariccia, Palazzo Chigi), 13 ottobre 2006 - 11 febbraio 2007, Ariccia, Palazzo Chigi

Stato di conservazione:
Condizione supporto: 80% (reintelo; riduzione di alcuni centimetri sul lato sinistro)
Condizione superficie: 85% (cadute di colore diffuse, anche sui visi; forse uno sfondamento della tela; riprese pittoriche e vernice protettiva, anche sulla testa del Bambino)

Il veneziano Carlo Saraceni (1579 circa –1620) fu uno dei primi seguaci di Caravaggio, cui, per usare le parole di Roberto Longhi, diede una interpretazione «neo-giorgionesca» fondendo il realismo del maestro lombardo con la pittura tonale di impronta veneta. Giunge a Roma nel 1598 dove frequenta la bottega dello scultore vicentino Camillo Mariani (1567-1611) per passare presto a servizio del pittore tedesco Adam Elsheimer (1578-1610). Tra il 1609 e il 1610 dipinge il “Transito della Vergine”, preferito dai Carmelitani scalzi alla “Morte della Vergine” di Caravaggio, per decorare seconda cappella a sinistra della chiesa trasteverina di Santa Maria della Scala. Come testimoniano altre prestigiose committenze – dalla decorazione a fresco della sala regia del Quirinale alle tele per San Lorenzo in Lucina e Santa Maria dell’Anima, sino al telero raffigurante “Enrico Dandolo e i capitani crociati” per la sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale a Venezia – Saraceni fu eccezionale pittore ma anche grande promotore della propria opera.
Secondo una brillante intuizione di Yuri Primarosa, egli eseguiva «abitualmente delle repliche di piccolo formato delle sue opere più famose» in prima persona o affidandole agli allievi, «nel suo atelier di “strada Ripetta verso San Giacomo”». «Ma si trattava di “ricordi” che rimanevano nella bottega a memoria dei più importanti lavori eseguiti? Oppure di una sorta di vetrina o campionario da mostrare ai potenziali clienti che potevano richiedere al pittore altre repliche delle opere visionate? Con ogni evidenza la risposta è affermativa per entrambi i quesiti. Gli originali, le seconde o le terze versioni autografe, i dipinti a quattro mani e le copie da questi derivate contribuivano, assieme alle stampe, a diffondere l’opera dell’artista e ad accrescerne la reputazione su scala europea» (Primarosa, 2018, “L’originale ritrovato. Carlo Saraceni etc”, pp. 73-74).
Il giovane studioso disegna così per Saraceni una prassi comune a molti artistici veneti, quantomeno da Tiziano a Canova (G. Tagliaferro, “The composition of themes and variations by Titian and his workshop”, in P. Humfrey, a cura di, “Titian. Themes and Variations”, Firenze, 2023, pp. 12-37; P. Mariuz, “Lo studio di Canova a Roma”, in G. Pavanello, a cura di, “Canova. Eterna Bellezza”, Cinisello Balsamo, 2019, pp. 44-55), che vede l’autore consapevole del valore – autonomo e persistente – della propria invenzione, diffusa attraverso uno studiato sistema di variazioni e repliche: in cui varia il coinvolgimento manuale, ma di cui resta indiscutibile e fondamentale la titolarità intellettuale.
Appare questo, oggi, il più aggiornato punto di vista per affrontare anche la «analisi comparata delle numerose repliche della Madonna del sonno […,] un caso studio di grande interesse, trattandosi fuor di dubbio dell’invenzione più copiata» di Carlo Saraceni (ibidem, p. 74). Sono ben dodici le opere – oggi note – testimoni di questa invenzione, stesure originali e repliche realizzate da Saraceni o quantomeno sotto il suo diretto controllo, nonché copie. Tre di esse – oggi all’Honolulu Museum of Fine Arts, al Museé Fesh e in collezione privata con provenienza da Giancarlo Baroni – sono su rame, tecnica impiegata anche in una quarta versione, nella collezione di Aldo Briganti nel 1948 e ora dispesa (Letizia Treves, scheda 32, in Maria Giulia Aurigemma, a cura di, “Carlo Saraceni. 1579-1620. Un Veneziano tra Roma e l’Europa, Roma, 2014, pp. 233-235). Otto, invece, sono su tela: due connesse a collezioni nobiliari (Pallavicini e Altemps), due in collocazione pubblica (Muzeum Narodowe di Varsavia e Badia della Trinità a Cava dei Tirreni) e due in collezione privata (una a Roma e l’altra già in asta con Samuel T. Freeman & Co., 10 luglio 2021, l. 91), oltre al dipinto in esame, che proviene dalla collezione di Luigi Koelliker, come bene scrive Sergio Benedetti, «without question the most ambititous and passionate collector of Italian paintings today» (Benedetti 2007, p. 127).
Il dipinto è stato reso noto da Gianni Papi, nella mostra “La “schola” del Caravaggio. Dipinti dalla Collezione Koelliker“, tenutasi a Palazzo Chigi, ad Ariccia, nel 2006. Lo studioso, in ragione della «qualità sostenuta in tutta la superficie pittorica», la ritiene «una redazione autografa», opinione ribadita anche da ultimo con comunicazione del 24 ottobre 2023. Sergio Benedetti, nella recensione sistematica della mostra, ne completa la definizione attributiva osservando l’intervento della bottega («appear to have been largely executed in Carlo Saraceni’s workshop», Benedetti 2007, p. 129). Della stessa opinione Maria Giulia Aurigemma, che considera l’opera una ottima «replica di bottega sotto lo stretto controllo e con intervento del Maestro, secondo una prassi consueta» (comunicazioni del 2 novembre e del 20 dicembre 2023).
La collocazione tra le versioni prodotte dalla bottega di Saraceni è accettata da Yuri Primarosa («bottega, non copia», comunicazione del 18 dicembre 2023) e Chiara Marin (comunicazione del 4 marzo 2011, riportata in forma sintetica negli archivi della proprietà: «Penso che l’autore faccia parte della cerchia stretta degli allievi del Saraceni a Roma e l’allure francese, che mi è sembrato di poter individuare, mi fa pensare a Guy François»).
Letizia Treves ha efficacemente distinto queste opere – prototipi, repliche e copie – secondo tre famiglie con leggere differenze, che confermano come le varianti dell’idea siano state orchestrate nella bottega: le «composizioni sono simili, pur mostrando piccole differenze in alcuni dettagli, quali la parte superiore della canna di bambù in mano alla sant’Anna, l’orlo blu del suo copricapo, e le pieghe del panneggio giallo». Treves identifica due versioni primarie, il rame di Honolulu (con «la canna di bambù più corta e meno dettagliata, e con il copricapo privo dell’orlo blu») e il rame ex collezione Baroni (con «la canna più lunga e più definita, e con il copricapo munito dell’orlo blu»), da cui derivano due famiglie di repliche e copie mentre una terza famiglia, rappresentata dal rame di Ajaccio, «unisce elementi delle due prime categorie», il che fa pensare che le due versioni primarie «siano state nello studio di Saraceni contemporaneamente». All’esito del ragionamento, ad un certo punto modelli di tutte e tre le rappresentazioni si devono essere trovati presso la bottega del Saraceni (Letizia Treves 2014, p. 235). E rispetto all’ineguale esito materiale, il piano ideativo si conferma il tratto davvero caratterizzante: «Nonostante l’esecuzione spesso rozza delle copie e delle varianti sopra elencate, la raffinatezza e la complessità della composizione originale del Saraceni appaiono evidenti» (Letizia Treves 2014, p. 235).
Fino alla nitida intuizione di Yuri Primarosa, in parte anticipata dalle osservazioni appena esposte di Letizia Treves, il rapporto tra prototipi, repliche e copie è stato interpretato in modo slegato: come dipinti che apparivano all’orizzonte della storia dell’arte con una certa casualità e senza alcuna intenzionalità comune. Osservandoli sia come strumenti di promozione sia come prodotti finali per i diversi committenti e mercati, il ruolo di Saraceni – autore sempre dell’idea, “l’inventio” – e della bottega, esecutrice in modo più o meno esteso della produzione materiale – assumono un nuovo livello di organicità, con risvolti importanti sul piano attributivo. In altre parole, quali prodotti Saraceni voleva proporre sotto il suo nome, o il suo marchio? Che livello di qualità dovevano raggiungere? Ed oggi in che modo la critica si misura con queste opere? Tralasciando le copie, caratterizzate da una qualità nettamente più bassa (è il caso, per esempio, del dipinto passato presso Samuel T. Freeman & Co. nel 2021), la critica non è affatto concorde sulle opere a cui attribuire il ruolo di prototipi e/o la piena autografia. Per Treves, si è visto, autografi sono sostanzialmente solo i due rami di Honolulu ed ex Baroni. Gianni Papi considera autografe le versioni Koelliker, qui in esame, e quella del Muzeum Narodowe di Varsavia. Quest’ultima è ritenuta una replica da Bialostoski (1956, pp. 94-95, n. 83); Anna Ottani nel 1968 – da una riproduzione fotografica – non esclude che sia «addirittura autograf [a] data la sua qualità non comune»; Nicholson (1979, 1990, I, p. 171) la considera «original or good replica», mentre per Treves è una copia. Nel 1990, Anna Ottani identificò il prototipo della serie nel rame di Honolulu (al tempo sul mercato), ritenendo tuttavia probabile che Saraceni «avesse personalmente eseguito della medesima composizione anche una versione più grande, su tela» (come in Papi 2006, p. 106). Parimenti considerò il rame ex Baroni una copia dal rame di Honolulu, ma «a seguito di un più recente studio di questa opera, l’autrice ha rivisto la sua opinione facendo notare non soltanto che la sua qualità è notevolmente superiore a quella di tutte le altre varianti e copie conosciute, ma che mostra un grado di raffinatezza totalmente assente nelle altre versioni. In particolare il dipinto ex-Baroni differisce in numerosi dettagli dal rame di Honolulu, e non può quindi essere considerata come una mera copia pedissequa ma piuttosto in quanto variante di altissima qualità esecutiva all’interno stesso della bottega del Saraceni, molto probabilmente con l’intervento del maestro stesso» (Treves 2014, p. 235). A sua volta, Primarosa, in due contributi del 2018 che svolgono l’articolato ragionamento già esposto sulla finalità delle repliche saraceniane, identifica «il fortunato prototipo in “tela d’imperatore”», il «primo originale» in un dipinto in collezione privata, già appartenuto al duca Giovan Angelo Altemps (1587-1620).
Proprio l’inventario dei beni del duca, redatto verso il 1618-1619, consente a Primarosa di chiarificare il soggetto: è registrato infatti «un quadro grande» di «Carlo Venetiano» raffigurante «la Madonna, Santa Elisabetta e Nostro Signore con un angiolo». «Non è dunque Anna, come sinora ritenuto, ma verosimilmente Elisabetta a rivolgersi alla Vergine al cospetto del Bambino addormentato: un’epifania sacra nella forma di una visione mistica del figlio di Dio, annunciato a Maria dall’arcangelo Gabriele e dalla stessa Elisabetta durante la Visitazione» (Primarosa, “Nuova luce su Carlo Saraceni…”, p. 74). Se l’inventario è davvero traccia del corretto soggetto, esso acquista una originalità intellettuale spiccata, e la coperta che l’Angelo sta ponendo su Gesù diventa piuttosto un velo che scopre il Salvatore del mondo.
Vale la pena di osservare che la menzione nell’inventario Altemps identificata da Primarosa –“tela d’imperatore”, ossia 130x90 cm, si attaglia perfettamente sia alla tela da lui pubblicata (94x130 cm), sia al dipinto Kolliker, qui in esame (89,5x125 cm), sia alle tele di Varsavia (92,5x127 cm) e Pallavicini (97,3 x 134,5 cm), presentando tuttavia queste ultime due marcate caratteristiche di copia.
Abbiano quindi soltanto tre opere - tutte di altissima qualità e comunque certamente realizzate nella bottega del maestro - che secondo la critica aspirano al rango di invenzione originale e/o alla piena autografia, il rame di Honolulu (Ottani, Treves), la tela connessa all’inventario Altemps nel 2018 (Primarosa) e la tela Koelliker (Papi).
Sottolinea Papi, circa la tela in esame, che «la diffusa qualità (solo offuscata da qualche svelatura) trova momenti particolarmente significativi nel volto di profilo di sant’Anna, con la cuffia dal soffice cotone, brani tipicamente saraceniani, come quello del Bambino Gesù adagiato su un giaciglio di fasce virtuosisticamente intrecciate secondo viluppi serpentinati, nel modo tipico del pittore veneziano». La cronologia proposta dallo studioso è coerente con quella indicata da Ottani e Treves per il rame di Honolulu (poco dopo il 1610 ca): «Nella problematica cronologia del Saraceni, segnata da pochissimi punti fermi, il quadro potrebbe occupare una posizione nei primi anni del secondo decennio, quando il naturalismo caravaggesco che si spiegherà apertamente nelle tele del 1617-1618 di Santa Maria dell’Anima e di San Lorenzo in Lucina sembra ancora piuttosto lontano; così la “Madonna del Sonno” potrebbe semmai accostarsi al “Martirio di santa Cecilia” di Princeton, alle tele dipinte per la cattedrale di Toledo, del 1613-1614, al “Ritrovamento di Mosé” della Fondazione Longhi» (Papi 2006, p. 106).
Essenziale ora l’osservazione ravvicinata della tela in esame anche in rapporto alle altre versioni.
Innanzitutto, balza all’occhio un vistoso pentimento sulla testa della anziana, di cui l’orecchio in vista risulta dipinto due volte e spostato. Parimenti il fazzoletto da capo, dietro al collo, risulta in parte ricoperto per accentuare il distacco del fiocco dalla carne e rendere più squillante il bianco; la pittura sporca di nero sopra la pelle del collo è un abile gioco di realismo tipicamente caravaggesco (riscontrabile, per esempio, nella “Madonna dei Pellegrini”; mentre la mano della Vergine protesa verso l’osservatore è una chiara citazione della “Cena in Emmaus”, oggi alla National Gallery); i capelli del Bambino sono in parte dipinti sulla fascia bianca di Maria e la sua mano destra, resa in modo piuttosto geometrico, sembra esser stata leggermente riposizionata; la mano sinistra dell’angelo regge una parte della stola rossa; mentre la mano destra presenta piccole correzioni al mignolo, all’anulare e al dorso. Quasi invisibile è il nimbo del Bambino.
Confrontando il dipinto Koelliker con le altre opere, va notato che il dipinto di Honolulu è leggermente più esteso sulla sinistra, accentua l’espressività nei volti e mostra un diverso trattamento della veste della vecchia, più aperta e integralmente bordata di bianco sul collo, nonché il bastone più corto e il fazzoletto senza orlo colorato: si legge tuttavia, anche se non molto accentuato, il pentimento all’orecchio. Il dipinto in collezione privata romana (Fototeca Zeri n. 45980) presenta lo stesso pentimento all’orecchio (tuttavia non bene compreso dall’esecutore) nonché il fazzoletto da capo della anziana bordato di azzurro, ma il bastone termina in un legno spaccato, come il rame già in collezione Baroni. Di quest’ultimo è completamente diversa l’espressione sul volto del Bambino e sono meno accentuate le ombre proiettate dai piedi, con un evidente pentimento sul piede ripiegato all’interno, così come sulla spalla, che potrebbe essere stata ridotta anche nel dipinto in esame: le anatomie sono in generale molto curate (si veda per esempio il sedere del Bambino). Anche nel dipinto Baroni risulta molto evidente il pentimento sull’orecchio della anziana, invece scarsamente leggibile nel dipinto di Ajaccio, qualitativamente meno rilevante degli altri due rami e con un chiaro effetto di copia. Il dipinto del Muzeum Narodowe non presenta il pentimento all’orecchio né alla mano destra dell’angelo, pur appartenendo alla cosiddetta serie con il fazzoletto bordato: si collega al rame ex Baroni per l’elemento del bastone fratto. È un po’ più esteso sul lato inferiore e presenta una maggiore leggibilità delle parti in ombra. Il dipinto collegato nel 2018 all’inventario Altemps parimenti non presenta il pentimento sull’orecchio, mostra tuttavia il bastone intero (come l’opera in esame), e nel complesso le anatomie sono meno auliche e sospese e più intense e coinvolte (Maria nel dolore presagito e Elisabetta-Anna nella interrogazione), così come i panneggi. Soprattutto il copricapo dell’anziana continua sul petto e poi dietro le spalle; ed anche il drappo sul braccio sinistro sembra essere un autonomo pezzo di tessuto rispetto al vestito. Probabilmente per dare spazio a tale sviluppo, è più esteso a destra. Maggiore, si può dire, è in quest’ultimo quadro il gusto per il dettaglio disegnativo: si confrontino per esempio, con l’opera in studio, le pieghe del lenzuolo teso alle spalle di Cristo, e le ali dell’angelo. Diversa anche l’espressione della bocca, che si apre in una parola nel dipinto in esame, mentre appare quasi serrata nell’opera in confronto; la stessa torsione delle teste delle due donna appare leggermente diversa, quasi ad avvicinarle. Di esso è copia il dipinto della Galleria Pallavicini, in cui le fisionomie appaiono più caricate e marcatamente “romane”, il grafismo si accentua e maggiori sono le distanze dal neo-giorgionismo, anche luministico, di Saraceni: è forse l’esempio di una copia esterna alla bottega.
Anche considerando soltanto le varianti del bastone, del collo della veste della anziana, del suo copricapo, colorato o meno, ed esteso sulla spalla, ed infine il raddoppiamento sull’orecchio – visibile in modo del tutto peculiare nel dipinto in esame – la combinazione degli elementi costituisce i dipinti in una rete inestricabile, che rafforza per tutti la definizione di Carlo Saraceni (inventore sempre e talvolta, in tutto o in parte, esecutore) e bottega (quest’ultima con un ruolo materiale più o meno esteso).
Certo è che la versione in studio presenta varianti significative rispetto a tutte le altre versioni note, oltre che una qualità esecutiva particolarmente alta.

Ringraziamo i Professori Maria Giulia Aurigemma e Gianni Papi e il Dottor Yuri Primarosa per il prezioso supporto nella catalogazione dell’opera.
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